Monumenti
Cisternoni

Questa imponente infrastruttura idraulica è dislocata nella parte alta della città moderna, sotto al parco del Seminario vescovile.
Sebbene ricadente all’interno dell’area un tempo racchiusa dalle mura dei Castra Albana, sembra essere stata realizzata, come suggerisce il paramento murario utilizzato, in epoca più antica rispetto alla loro costruzione, verosimilmente in relazione con gli edifici periferici della villa albana dell’imperatore Domiziano.
La cisterna venne realizzata scavando profondamente nel banco tufaceo naturale, integrando lacune e sopraelevazioni con strutture in opera cementizia con paramento in opera mista (specchiature in opera reticolata e fasce di mattoni).
Quasi completamente ipogea, emerge di poco sul lato a valle con una fronte scandita da ampi finestroni (ridotti nelle dimensioni in età moderna per dare maggior solidità alla struttura), deputati all’areazione degli interni. Questo prospetto, oggi piuttosto disadorno, in antico era quasi sicuramente decorato da intonaci, elementi architettonici e statue, come suggerisce il rinvenimento nel XIX secolo di due delfini in peperino e di una sfinge con sifone interno, verosimilmente pertinenti alla decorazione di una fontana. Su questo lato si apre anche l’accesso al monumento, coincidente con quello antico. Una rampa addossata all’angolo Ovest dell’ambiente, sostenuta da due arcate, scende ripidamente con di 31 gradini direttamente al fondo della cisterna.
L’enorme invaso (1436, 50 mq), di forma trapezoidale tendente al rettangolo (lati lunghi: m. 48 e 45,50; lunghi corti: m. 29 e 32) venne suddiviso in 5 navate coperte da volte a botte e divise da quattro pareti cementizie con paramento in opera laterizia, nelle quali si aprono passaggi arcuati molto ampi (m. 2,88), sottolineati in facciata da ghiere di bipedali. I tratti di parete tra i passaggi arcuati presentano un ispessimento della sezione (m. 2,80 x 1,80), rispetto a quello della parete, che li trasforma in veri e propri pilastri.
Il fondo, i “pilastri” e le pareti della cisterna erano (e in parte lo sono ancora) rivestiti da uno spesso strato impermeabilizzante di cocciopesto (un impasto di malta e mattoni sminuzzati), che consentiva all’edificio di contenere fino a 10.132 metri cubi di acqua.
L’areazione dell’edificio era assicurata dai finestroni disposti sul lato Sud-Ovest, da lucernari a pianta circolare che si aprono nelle volte, e da finestre (oggi richiuse) poste sui lati lunghi.
La cisterna era alimentata da due acquedotti, entrambi provenienti da sorgenti poste all’interno del cratere del Lago Albano: il più antico, detto delle “Cento bocche”, così denominato per le numerose sorgenti dalle quali era alimentato, interamente scavato nel banco tufaceo, si immetteva al centro della parete di fondo della cisterna; il secondo, realizzato in epoca successiva, era una diramazione dal percorso principale dell’acquedotto denominato “Malaffitto Alto” e sboccava al centro della parete di fondo della navata Sud-Est, garantendo un maggior approvviggionamento d’acqua.
Celebri per le dimensioni e lo stato di conservazione, i cisternoni di Albano sono stati uno dei soggetti preferiti di importanti architetti e disegnatori (tra i quali Giovan Battista Piranesi e Luigi Rossini). Ripristinata nella sua funzione di conserva d’acqua nel 1884, quando venne completamente svuotata dagli interri accumulatisi nei secoli, e nel 1950, quando vennero restaurate le pesanti ferite inferte al monumento dai bombardamenti del 1944, la cisterna è periodicamente ancora in uso.
Anfiteatro Severiano

L’edificio è situato alla periferia Nord della città attuale, in un’area esterna anche ai Castra Albana, forse sul luogo in precedenza sfruttato come cava di peperino.
Nella metà settentrionale infatti si può notare il banco tufaceo affiorante profondamente inciso e adattato alla forma ellittica del monumento, mentre la metà meridionale è caratterizzata dalla sequenza di muri radiali in opera cementizia con paramento in opera listata e volte a botte inclinate impostate sugli stessi, sopra le quali erano un tempo sistemate le gradinate della cavea. Su questo versante l’edificio presentava originariamente un doppio ordine di arcate (oggi si conserva solo il primo livello), che raggiungevano un’altezza verosimile di 22 m. circa.
Il settore meridionale del’edificio si innalzava a sua volta su una piattaforma artificiale sostenuta a valle da un muro di terrazzamento a nicchie in opera cementizia, esterna alla costruzione e sistemata per uniformare in piano l’originario pendio della collina.
Cinque ingressi in piano immettevano direttamente all’arena (m. 67,5 x 45), scavata in massima parte nel tufo e ricoperta da uno spesso strato di cocciopesto; un cunicolo sotterraneo consentiva lo smaltimento delle acque eventualmente ristagnanti. I due accessi principali erano disposti sull’asse maggiore dell’anfiteatro, gli altri tre erano ricavati nelle sostruzioni del settore meridionale. Alle estremità interna di questi accessi si aprivano sui lati brevi scalette che immettevano direttamente al primo settore delle gradinate, riservato alle personalità di alto rango.
Una plurisecolare azione di spoglio ha causato la quasi totale scomparsa delle gradinate. Si può ipotizzare che fossero comunque organizzate in almeno due settori (maeniana), superiore e inferiore, separati da una sorta di camminamento piano (praecinctio) e raggiungibili attraverso apposite rampe di scale che si dipartivano dai fornici del settore meridionale.
Ancora ben distinguibile è invece, il luogo del pulvinar, la tribuna d’onore riservata all’imperatore e alla sua corte, posta esattamente sopra il corridoio di ingresso che si apre al centro del settore meridionale, il cui accesso sul prospetto esterno delle sostruzioni è enfatizzato dalla presenza di due semi-semicolonne laterizie.
Esattamente di fronte, al centro della metà settentrionale dell’edificio, doveva trovarsi una seconda tribuna d’onore, forse destinata agli organizzatori degli spettacoli. Questo lato del monumento è poco riconoscibile, danneggiato dall’azione di spoliazione post-antica.
È stato calcolato che l’anfiteatro dei Castra Albana potesse contenere fino a 15.000 persone, potendo dunque ospitare non solo i legionari dell’accampamento ma anche la popolazione che abitava nei dintorni.
Non sono note iscrizioni che menzionino la realizzazione di spettacoli specifici, ma è lecito immaginare che vi si svolgessero munera (combattimenti tra gladiatori) venationes (combattimenti con animali) e, secondo alcuni, anche naumachie.
Dopo il suo abbandono, nel tardo antico e nel medioevo divenne cava di materiale da costruzione e, intorno all’XI sec. d.C., ospitò nel III fornice un oratorio cimiteriale cristiano nella cui abside affrescata erano raffigurati i Santi Stefano, Lorenzo, Nicola, Pancrazio e un anonimo papa; nelle pareti dello stesso fornice e in altri vicini si ricavarono loculi per sepolture.
Il fascino del monumento attirò l’attenzione di grandi disegnatori/incisori del passato tra i quali basti ricordare Giovan Battista Piranesi e Carlo Labruzzi.
Scavi sistematici dell’anfiteatro furono effettuati soltanto nel 1912 (Giacomo Mancini), nel 1914 (Giuseppe Lugli) e nel 2000 (Giuseppe Chiarucci)
Chiesa della Rotonda

L’attuale chiesa di S. Maria della Rotonda riutilizza un grande edificio di età Domizianea (seconda metà del I sec. d.C.) a pianta quadrata (m. 19) e con pareti in opera mista (specchiature di reticolato e fasce di mattoni).
Oggi accessibile dal lato SE, presentava originariamente quattro ingressi, tutti posti al centro delle pareti perimetrali e sormontati da fìnestroni coperti ad arco, che davano luce all’interno. Una coppia di grandi nicchie a pianta semicircolare, con la funzione di alleggerire le murature e ospitare statue decorative, era posta ai lati del finestrone centrale. Finestra (tamponata da mosaico) e una delle nicchie sono visibili sulla facciata SE.
L’interno, a pianta circolare (m. 16,10), è coperto da una volta cementizia a cupola emisferica; al centro della cupola si apriva un’apertura circolare (oculum, oggi tamponato) che garantiva l’areazione dell’ambiente. Nella forma e nelle proporzioni tra pianta e alzato, l’edificio si presenta dunque come un piccolo Pantheon.
La planimetria interna è movimentata dalla presenza di quattro ampi nicchioni semicircolari, che si aprono in corrispondenza degli spigoli esterni del quadrato e che originariamente ospitavano altrettanti bacini di fontana incassati, e altre quattro nicchie minori poste in corrispondenza dei quattro ingressi alla sala.
Agli inizi del III sec. d.C., in occasione della realizzazione dei Castra Albana (all’interno dei quali l’edificio venne trovarsi) la costruzione venne ristrutturata e trasformata in edificio termale. Fu rinnovato sia all’esterno che all’interno il pavimento, con mosaici bianchi e neri raffiguranti mostri marini, che andarono a celare il pavimento precedente e anche le quattro vasche ricavate nelle grandi nicchie interne.
In occasione di questa ristrutturazione venne realizzato l’affresco con scene di palestra presente sulla faccia esterna del lato NO. In questo settore del complesso sono state sistemati reperti archeologici recuperati negli scavi e si può vedere un muro in opera reticolata, più antico della fase domizianea.
Trasformato in edificio di culto cristiano solennemente consacrato il 7 dicembre 1060 (come attestato epigraficamente), la Rotonda ha restituito frammenti di decorazioni marmoree risalenti al IX – X sec. d.C. e, secondo una tradizione locale, avrebbe precedentemente accolto intorno al 768 monache greche sfuggite alla persecuzione degli iconoclasti, che vi portarono la sacra immagine della Madonna, oggi ancora qui venerata. Il quadro, dipinto su tavola, datato però all’XI- XII secolo, è oggi collocato alle spalle dell’altare maggiore, realizzato riutilizzando cornicione lavorato di età domizianea.
Medievali sono anche lo splendido ambone con decorazione musiva cosmatesca del XIII secolo (ma poggiato su frammenti di decorazione marmorea di IX-X sec. d.C.) e i lacerti di affreschi venuti alla luce grazie ai restauri del 1919, datati a i primi decenni del XIV secolo e caratterizzati da colori e stile che denunciano la presenza dei sintomi di un diffuso rinnovamento giottesco. Nel catino della prima nicchia situata a destra di chi entra, è raffigurato Cristo nella sua maestà di sovrano è giudice, attorniato da angeli e santi, che sovrasta l’intera scena della “storia della vera croce” dipinta in cinque riquadri. Sull’altare laterale destro, è invece raffigurata S. Anna che sostiene la Madonna con il Bambino, tra S. Giovanni Evangelista e S. Ambrogio, in un affresco dai modi cavalliniani se non addirittura la mano dello stesso Pietro Cavallini (1240 circa – 1330 circa).
Contemporaneamente a questi lavori di ristrutturazione e ridecorazione, verso il 1316 venne costruito il campanile.
I successivi lavori Seicenteschi di restauro, che annullarono completamente il primitivo aspetto interno (con la tamponatura di alcune nicchie e con un interramento del piano originale rialzato di ben 3 metri) e dotarono il Campanile di una pesante stuccatura (poi ulteriormente restaurato nel 1708), saranno annullati nel 1935-1938, quando fu ripristinata la faccia SE di età romana con l’aggiunta dì un portichetto sorretto da colonne, il campanile venne riportato alla originaria architettura trecentesca e venne eliminato il reinterro pavimentale, riportando alla luce i pavimenti del III sec. d.C.
Tomba degli Orazi e Curiazi

In prossimità della chiesa della Stella, in corrispondenza del XV miglio della via Appia antica, si alza il monumentale edificio funerario tradizionalmente denominato Tomba degli Oriazi e Curiazi.
Il mausoleo è articolato in un massiccio e alto (m. 7,50) podio a pianta quadrata (m. 15 per lato), sormontato da 5 tronchi di cono in muratura, quattro uguali simmetricamente posti agli angoli e uno centrale di dimensioni maggiori. Tutta la struttura è realizzata in opera cementizia rivestita di opera quadrata. Il podio presenta una semplice cornice modanata alla base e una superiore sostenuta da fila continua di semplici mensole parallelepipede. Sul lato meridionale del podio si apre l’ingresso alla cella funeraria, a pianta quadrata (m. 2,75 per lato).
La forma e le dimensioni dell’edificio hanno attirato l’attenzione fin dal XVI secolo di antiquari e studiosi, che lo hanno attribuito a diversi personaggi: a Pompeo Magno, le cui ceneri erano state traslate dalla sorella nella sua residenza albana (Pirro Ligorio, Riccy); ad Arunte, capostitpite degli Azii – ramo materno della famiglia di Augusto (Lucidi, Giorni e A. Nibby); a M. Azio Balbo, cognato di Giulio Cesare (F. Petrucci); in maniera più diffusa e radicata a livello locale, agli Orazi e Curiazi (L. Alberti), che, in rappresentanza di Roma e Alba Longa, si affrontarono in duello al V miglio della Via Appia: l’edificio di Albano sarebbe la reduplicazione di quello eretto in loro memoria al V miglio.
Lo stato di fatiscenza del monumento ne suggerì il restauro nel XIX secolo, realizzato tra il 1828 e il 1831 da Luigi Maria Valadier, i cui interventi si concentrarono soprattutto sul rivestimento esterno in blocchi di peperino, che, dunque, è in gran parte moderno.
La singolare forma della tomba ha punti di contatto con la descrizione del sepolcro di Porsenna e, più in generale, con raffigurazioni di tombe monumentali in un gruppo di urne volterrane provenienti da una tomba attribuibile al ramo volterrano della gens Atia, del II – I sec. a.C., che potrebbe avvalorare una delle attribuzioni proposte.
Porta Praetoria

La porta venne in luce nel febbraio del 1944 quando un bombardamento alleato distrusse il palazzo che la inglobava. Dopo un lungo restauro, terminato nei primi anni ’50, parte del monumento è stato di recente oggetto di nuovi interventi di consolidamento da parte del Comune di Albano, ultimati nel 2013.
Dominante la via Appia e accessibile da essa, la porta praetoria costituiva l’ingresso principale all’accampamento della Legio II Parthica. La possente struttura, costruita con grandi blocchi di tufo, larga più di 35 metri e con un’altezza minima conservata di 12 metri, era a tre fornici affiancati da due torri rettangolari, che sporgevano dalla struttura. È una delle più grandi portae praetoriae nel panorama dell’architettura militare dell’Impero Romano. Il fornice centrale, più alto di quelli laterali, era sormontato da un’iscrizione monumentale, oggi purtroppo perduta. La facciata doveva essere ornata da colonne delle quali, però, non essendosene rinvenuta traccia, non è possibile ipotizzarne il materiale, cioè se siano state in peperino o marmoree. Tra le torri e i due ingressi minori si trovano due piccoli ambienti che possono essere interpretati come vani per accogliere scale lignee per raggiungere il cammino di ronda sopra la porta e, forse, anche per accedere alle torri. La sua architettura imponente, visibile da lontano, doveva essere di notevole effetto per i viaggiatori diretti al meridione o che entravano a Roma da sud.
Villa Cavallacci

La villa si sviluppava nel settore a sud-ovest della via Appia, nella fitta rete di impianti residenziali che costellavano il territorio, lungo uno delle dorsali laviche che, dalle pendici del cratere del lago Albano, si sviluppa digradando verso occidente.
Il complesso, con pars residenziale e parte produttiva, era sviluppato su un pendio, a più livelli, con i vari corpi di fabbrica sistemati in ordine gerarchico.
Nel settore più alto è stata individuata una cisterna, lunga ca. 15 m e larga 9,5 m, costruita con pareti in opera mista di reticolato e laterizio e rivestimento interno con cementizio a base fittile (“cocciopesto”) su cui era steso un finissimo strato di intonaco “a polvere di marmo”. La copertura era originariamente costituita da una volta a botte, come si intuisce dai resti superstiti dell’imposta.
Nel settore centrale sottostante, caratterizzato da ambienti prevalentemente privati organizzati attorno e alle spalle di uno spazio scoperto con terminazione a esedra sul limite est. Gli ambienti, con muri in opera reticolata, presentano tracce di pavimenti in battuto (fine II – inizi I sec. a.C.), poi mosaici geometrici a tessere b/n in età giulio-claudia (25 a.C. – 75 d.C.), infine pavimenti sovrapposti in opus sectile (intarsio marmoreo) più tardi (II-III sec. d.C.).
La pars rustica (produttiva) della villa si sviluppava nel settore sud-est. Questa destinazione d’uso dell’area è confermata dalla realizzazione, non prima della seconda metà del I sec. d.C., di una concimaia, un grande ambiente rettangolare di ca. 16 x 6 m, in opera reticolata, il cui piano pavimentale fu realizzato con una forte pendenza in direzione SE per permettere ai liquami prodotti dalla macerazione del letame di defluire a valle, attraverso un canale di scolo.
L’esame dei reperti pertinenti all’apparato decorativo della villa attesta l’elevato livello di ricchezza del proprietario, come i raffinati motivi ornamentali riscontrabili sui frammenti pittorici, riconducibili al IV stile pompeiano, o l’arredo in marmi bianchi e colorati provenienti dall’Italia e dalle province. Di particolare interesse sono inoltre i frammenti di terrecotte architettoniche con soggetti iconografici propri dell’età augustea. A partire dall’età severiana il complesso fu oggetto di restauri e modifiche diffusi e si può ipotizzare che la villa conobbe un lento degrado a partire dalla fine del III sec. d.C.
Villa Pompeo

Le rovine di questa ragguardevole residenza albana sono visibili all’interno del Parco pubblico comunale, già appartenente a Villa Doria, il cui palazzo settecentesco, gravemente danneggiato nei bombardamenti dell’ultima guerra, è stato poi demolito.
La villa romana era articolata su più livelli: su quello più levato era dislocato il nucleo principale, a destinazione residenziale (ampio m. 75 circa), distribuito su uno stretto pianoro orientato Nord-Est/Sud-Ovest e affacciato verso la pianura pontina e il mare; quelli inferiori erano articolati in una serie di piattaforme digradanti, distribuite sul versante sud-orientale della collina (per un’estensione totale di circa quattro ettari).
L’ingresso principale alla villa doveva essere posto sulla fronte NE, lambita dalla via Appia.
Le rovine del nucleo centrale, originariamente delimitate sui lati lunghi da criptoportici e ambienti sostruttivi di servizio dei quali affiorano ancora cospicui avanzi, presentano la fronte Sud-Ovest decorata da nicchie semicircolari, con testate decorate da lesene tuscaniche, in opera reticolata con fasce di opera laterizia. Due criptoportici paralleli si addentrano ortogonalmente da questa fronte nel retrostante terrapieno, mettendo in comunicazione questo livello (sistemato a giardino) con quello superiore (a destinazione residenziale).
Su questo lato è presente un avancorpo centrale, nel quale si apriva una piccola fontana/ninfeo decorata sulle pareti da nicchie (contenenti originariamente statue).
Il lato opposto del corpo centrale poggia direttamente su una vasta sostruzione semi-ipogea, probabilmente articolata in tre distinte cisterne. Attualmente è accessibile solo quella posta più a SE, con pareti in opera reticolata; è divisa in due navate a pianta rettangolare (m. 24.25 x 3.60), coperte da volta a botte cementizia a sesto ribassato e separate da muro continuo nel quale si apre un unico passaggio centrale. Pareti e fondo sono rivestiti da cocciopesto. Nella zona antistante l’ingresso alla cisterna affiorano le rovine di un altro apprestamento idraulico con pareti perimetrali in opera mista e tracce di rivestimento in cocciopesto, un’altra cisterna dunque, ma più tarda (età domizianea?). Due scalette laterali simmetriche, alloggiate tra le rovine in opera mista, consentono di raggiungere il pianoro soprastante, oggetto di scavi archeologici (G. Lugli, anni ’20; G. Chiarucci, anni ’80).
Le indagini rivelarono la presenza di un triportico belvedere (oggi interrato) affacciato sullo stupendo panorama che guardava verso il mare costruito sopra l’avancorpo del lato Sud-Ovest e numerosi ambienti residenziali (oggi interrati) pavimentati a mosaico, attribuibili a tre distinte fasi costruttive: prima metà del I sec. a.C., fine del I sec. a.C. – inizi I sec. d.C., seconda metà del I – prima metà del II sec. d.C.
Gli unici ambienti ancora visibili sono quelli indagati negli anni ’80, dislocati verso il margine Nord-Ovest del pianoro: una serie di ambienti delimitati da muri in opera reticolata, con pavimenti a mosaico b/n e in opus sectile e tubuli lungo le pareti, che evidenziano la destinazione termale di questo settore.
La tradizionale attribuzione alla residenza albana di Pompeo Magno, tutt’altro che certa, si basa essenzialmente sulle labili indicazioni topografiche contenute in alcuni passi di Cicerone, che non forniscono elementi per una precisa collocazione
In età successiva la spettacolare villa venne forse inglobata nella estesa proprietà imperiale che aveva il suo nucleo centrale a Castel Gandolfo, dotandosi di splendidi arredi scultorei (da queste rovine provengono un centauro in marmo bigio e rosso e una statua arcaizzante di Dioniso barbato in marmo bianco, oggi alla Galleria Doria-Pamphilj a Roma).
In età post-antica il criptoportico di sinistra fu riutilizzato come luogo di culto e affrescato (IX sec. d.C).
Terme di Cellomaio

A sudovest della Via Appia, di fronte alla fronte dei Castra, si sviluppava un grande edificio termale, le cui rovine in opera laterizia sono oggi inglobate nei caseggiati del quartiere Cellomaio. La chiesa di S. Pietro costituisce il lato esterno nordorientale e anche sulle sue pareti sono visibili resti delle strutture antiche. Ma la maggior parte delle rovine ancora visibili è nella parte sud-ovest del quartiere, inserita nel convento delle Suore Oblate di Gesù e Maria, dove molti vani sono riutilizzati come aule della scuola elementare e alcuni resti non intonacati sono riconoscibili nell’area del cortile.
Qui le sostruzioni del complesso termale si estendono su un’area di ca. 79 m x 35 m che, come vedremo, e si articolano in 39 vani, che svolgevano la funzione L’impianto soprastante. I bolli laterizi individuati, databili all’impero di Caracalla, consentono di attribuire all’attività di questo imperatore la costruzione dell’edificio.
L’edificio si estendeva per circa 90 x 83 m per una superficie di 7.470m²: a sud-ovest e sud-est erano due caldaria e tre tepidaria (stanze riscaldate), con grandi finestre aperte a sud-ovest. Singoli praefurnia, sottostanti ciascun vano, ma collegati da un corridoio di servizio, servivano alla gestione del fuoco, necessario per riscaldare l’acqua destinata alle vasche immersive. Un grande vano centrale, posto davanti ai tepidaria, può essere con buona probabilità identificato come frigidarium (ambiente non riscaldato), secondo una sequenza tipica delle terme romane, che vedeva la successione degli ambienti da freddi a caldi. Sicuramente anche le grandi terme di Albano Laziale erano dotate di apodyteria (spogliatoi), una palaestra e una natatio (piscina), tuttavia la loro identificazione non può che essere ipotetica. Se la realizzazione delle terme ad Albano può essere interpretata come testimonianza dell’enorme potere dell’esercito, in quanto l’edificio fu realizzato in primo luogo per la Legio II Parthica, la struttura appare però decisamente sovradimensionata per il piccolo accampamento militare e forse era destinata anche alla popolazione circostante.